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E' vero che la Corte affermò anche che l'art. 27 Cost., comma 1, non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, ma fin d'allora precisò che ciò vale solo per la cd. responsabilità oggettiva spuria od impropria, ossia per quella ipotesi in cui non è coperto da dolo o colpa un solo elemento del fatto, magari accidentale.
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E specificò che invece diverso è il problema per la responsabilità oggettiva pura o propria, perchè "è in relazione al complessivo, ultimo risultato vietato che va posto il problema della violazione delle regole preventive che, appunto in quanto collegate al medesimo, consentono di riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato".
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Ora, poichè il complessivo ultimo risultato vietato nell'art. 586 cod. pen. è costituito dalla produzione dell'evento non voluto, è in relazione a tale evento che deve essere accertata la violazione di regole preventive, al fine di riscontrare nell'agente la colpa per il fatto realizzato.
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Con la successiva sentenza n. 1085 del 1988, la Corte costituzionale precisò che "perchè l'art. 27 Cost., comma 1, sia pienamente rispettato e la responsabilità penale sia autenticamente personale, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili".
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E ciò a prescindere dalla circostanza che l'elemento in discussione si identifichi o meno con l'evento del reato:
rimanendo sottratti alla esigenza della "rimproverabilità" unicamente "gli elementi estranei alla materia del divieto (come le condizioni estrinseche di punibilità che, restringendo l'area del divieto, condizionano, appunto, quest'ultimo o la sanzione alla presenza di determinati elementi oggettivi)".
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La medesima pronuncia ha inoltre esplicitato in modo chiaro che il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu "contrasta con l'art. 27 Cost., comma 1", affermando che da tale parametro è richiesto quale essenziale requisito subiettivo d'imputazione, oltre alla coscienza e volontà dell'azione od omissione, almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l'autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato. (...)
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E' ben vero che la massima: "qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu" implica già, almeno solitamente, un collegamento subiettivo tra il reo ed un dato (di regola evento) senza del qual collegamento non si avrebbe il "versali in re illicita" (...).
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Ma non per tal ragione è costituzionalmente legittimo addebitare all'agente anche gli ulteriori eventi (...) nella produzione dei quali la volontà del reo è rimasta totalmente estranea e che, pertanto, non sono rimproverabili allo stesso reo.
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Dall'art. 27 Cost., comma 1 (...) non soltanto risulta indispensabile, ai fini dell'incriminabilità, il collegamento (almeno nella forma della colpa) tra soggetto agente e fatto (o ... tra soggetto ed elemento significativo della fattispecie) ma risulta altresì necessaria la rimproverabilità dello stesso soggettivo collegamento.
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E' interessante ricordare che la sentenza in esame riferì il requisito della colpa anche ad attività illecite, come la sottrazione e l'impossessamento di una cosa mobile altrui al fine di farne un uso momentaneo (art. 626 c.p., comma 1, n. 1), osservando che "la mancata restituzione (...) non è addebitabile al soggetto agente (...) se dovuta a caso fortuito o a forza maggiore", ossia se non dovuta a colpa.
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Successivamente, la sentenza n. 2 del 1991 confermò l'illegittimità del principio "qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu", mentre la sentenza n. 179 del 1991 ribadì che l'art. 27 Cost., comma 1, richiede quale requisito subiettivo d'imputazione "almeno la colpa quale collegamento subiettivo tra l'autore del fatto ed il dato significativo (sia esso evento oppur no) addebitato"; principio questo ulteriormente ribadito dalla sentenza n. 61 del 1995.
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Da ultimo, con la sentenza n. 322 del 2007, la Corte costituzionale ha confermato le sentenze nn. 364 e 1085 del 1988 in ordine alla costituzionalizzazione ed al contenuto del principio di colpevolezza, osservando che questo partecipa, in specie, di una finalità comune a quelli di legalità e di irretroattività della legge penale (art. 25 Cost., comma 2):
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esso mira, cioè, a garantire ai consociati libere scelte d'azione, sulla base di una valutazione anticipata ("calcolabilità") delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta; "calcolabilità" che verrebbe meno ove all'agente fossero addossati accadimenti estranei alla sua sfera di consapevole dominio, perchè non solo non voluti nè concretamente rappresentati, ma neppure prevedibili ed evitabili.
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In pari tempo, il principio di colpevolezza svolge un ruolo "fondante" rispetto alla funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost., comma 3), non avendo senso rieducare chi non versi almeno in colpa rispetto al fatto commesso.
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