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La prima normativa antidoping, in Italia, è costituita dalla L. 1099 del 26.10.1971(sulla tutela sanitaria delle attività sportive) i cui artt. 3 e 4 punivano l’impiego di sostanze nocive per la salute degli atleti, al fine di modificare le loro energie artificialmente.

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Tuttavia la normativa ha avuto scarsa applicazione, soprattutto perché dotata di un sistema sanzionatorio decisamente moderato, atteso che i reati previsti agli artt. 3, 4 e 5 erano puniti con la sola ammenda e quindi con scarsa efficacia deterrente.

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A seguito poi, del processo di depenalizzazione, realizzatosi con la Legge 24 novembre 1981 n. 689, le ipotesi contravvenzionali - già previste dalla L. 1099/1971- divennero semplici illeciti amministrativi.

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Per colmare l’ avvenuto vuoto legislativo in materia, gli interpreti hanno utilizzato un altro strumento normativo costituito dalla Legge n. 401/89 introdotta precipuamente, per contrastare la diffusa pratica delle scommesse clandestine nel mondo dello sport.

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La suddetta legge, in realtà, resta legata all’ambito delle competizioni sportive organizzate dal CONI o altri enti riconosciuti dallo Stato.

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Gli interpreti hanno cercato di estendere l’ambito di applicazione della norma anche ai fenomeni autogeni di doping, ancorandosi alla nozione di “atti fraudolenti”: si è ritenuto che essendo il doping, un artificio volto a falsare il risultato sportivo e leale di una competizione, sia da considerarsi un atto fraudolento volto ad alterare l’esito della competizione sportiva.

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Nonostante i dubbi e le perplessità circa la possibilità di tale estensione (applicabilità esclusa dalla Giurisprudenza della Corte di Cassazione Penale, sez.VI, 26.03.1996 in quanto la norma sanziona principalmente la compravendita – quindi un rapporto sinallagmatico- dei risultati di eventi agonistici), alcuni operatori, tuttavia, ritengono applicabile l’art. 1 alle ipotesi di doping, sulla base delle seguenti argomentazioni:

a)bene giuridico tutelato è il regolare svolgimento delle competizioni sportive, quindi le pratiche farmacologiche volte ad alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ledono il bene giuridico tutelato dalla norma;

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b)il reato può essere commesso da “chiunque”, pertanto anche dall’atleta;

c)in caso di atti fraudolenti, non è necessaria la presenza di un accordo sinallagmatico tra l’atleta ed il corruttore.

Tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale maggioritario ha escluso la possibilità di estensione della norma alle ipotesi di assunzione di sostanze dopanti, ritenendo che - secondo la ratio legis - l'unico possibile autore del reato nelle varie ipotesi di reato, sia un soggetto estraneo alla competizione sportiva e che il compimento di atti fraudolenti sia modalità sussidiaria rispetto a quella della promessa-offerta ma azionabile solo dal soggetto indicato come “chiunque” quindi soggetto non partecipante alla gara sportiva (cfr. Cassaz. pen. supra; così Corte di Appello di Torino, Sez. III penale, 14 dicembre 2005-10 marzo 2006).

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Con la legge 29 novembre 1995, n. 522, l’Italia ha ratificato la Convenzione contro il doping, stipulata a Strasburgo il 16 novembre 1989 ma nel 2000 è stata introdotta la legge del 14 dicembre 2000, n. 376, - considerata il primo effettivo intervento legislativo contro la pratica del doping - denominata “Disciplina della tutela delle attività sportive e lotta contro il doping” che, basandosi prevalentemente sul concetto di tutela della salute di quanti praticano attività sportiva, istituisce il reato di doping.

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